Stegal67 Blog

Wednesday, June 30, 2010

Appollaiato su un balconcino che guarda dritto sulla zona di arrivo dei Campionati Altoatesini 2009... nell'unico buco dove prende la mia chiavetta, con due caviglie (ora sono due!!!) grosse come palloncini, con i muscoli piegati e piagati da una seconda tappa sassosissima e verdissima ma condotta con onore e da una terza tappa velocissima sonno un sole cocente, ecco quello che avevo scritto dopo la prima tappa della 6 giorni del Tirolo.
Ci ho messo tre giorni per trovare uno straccio di campo per pubblicare qualcosa su internet... sembrano i tempi che sto impiegando per trovare le lanterne sopra il Karersee!!!

***

Essiamonoi Essiamonoi in Paradiso siamo noi!
Si, siamo proprio in Paradiso, ma quando Quel Qualcuno disse che le porte del Paradiso sarebbero state conquistate con fatica e sudore della fronte... penso che avesse in mente proprio la prima tappa della 6 giorni del Tirolo!

Ommammamia... devo andare parecchio dietro con la memoria per ritrovare una long così faticosa, così dura. Sarà per il fatto che sto corricchiando su una gamba sola, con il piede sinistro sempre a rischio di farmi lanciare un urlo lancinante e la gamba destra che fatica per due... oggi sono stato ancora una volta vicino al limite delle mie possibilità fisiche, soprattutto per carenza di idratazione, e lo so soltanto io come mi sia stato possibile trascinarmi in cima alla carta del Karersee proprio sotto (ma anche in mezzo a) le ultime lingue di ghiaccio e neve che vengono giù dalle montagne più belle del mondo.

Si parte per la prima tappa e si capisce subito che Rudi Mair, proprio lui il Rudi “no limits” (avete capito adesso il perchè?), non ha proprio intenzione di lasciarci tranquilli per via del fatto che di tappe ce ne sarebbero altre cinque. Già nel salire alla partenza, la compagnia del Buon Ricordo (io) mette in scena una gag delle nostre: affianco, zoppicando, un giovanotto scandinavo in tuta NTNUI che sale alla partenza aiutandosi con una stampella, ed insieme ce la chiacchieriamo sui nostri piedi sventurati... tutto molto soft, finché durante la eterna mia tratta tra la 5 e la 6 ci incroceremo (lui fa una Open) e quella stampella passerà di mano due volte in segno di saluto!

Ma sto andando troppo avanti.
Partenza e prima lanterna lunghissima, bisogna uscire dai valloni e poi buttarsi su una costa abbastanza dolce in cerca del primo punto (per me saranno già 15 minuti di contesa)... sono lì che me ne vado per i fatti miei ed improvvisamente piomba sulla scena la bellissima Josephine Engstroem (perchè una ragazza così carina deve fare l’orientista professionista?) che per prima cosa mi chiede dove siamo! Per fortuna sono talmente lento da avere una idea chiara dell’avvallamento in cui mi trovo, quindi riesco anche a fare una figura decente (se la bella Josi volesse ricambiare il favore, mi trova sul percorso M40 dietro a qualche masso erratico...). Nella strada per il secondo punto incrocio PLab in corrispondenza del mio punto 17 o 18, che ad una prima valutazione spero di poter tornare ad affrontare circa 90 minuti dopo... purtroppo la dolce costa finisce presto, Josi chissà dove sta, ed è il momento della prima risalita “no limits”: 3-4-5: una salitazza sotto il rabattone del sole, con i punti che vengono incontro a me mooooolto lentamente (per fortuna sugli stessi punti scendono in senso contrario le categorie master femminili, cosicché non è un problema sbarcare sul cocuzzolo giusto).

Dopo la 5, con il cuore che batte già all’impazzata, una occhiata alla carta di gara... ed alle porte del Paradiso: la tratta 5-6 infatti porta in cima alla carta, dove ancora la neve alberga incontrastata a ricoprire un ghiaione eterno che sembra appena precipitato dal ghiacciaio soprastante. La velocità di percorrenza diminuisce sensibilmente (se è possibile rallentare ancora di più) e mi accorgo che i compagni di avventura che si muovono in zona cominciano a guardarsi l’un l’altro, più per solidarietà orientistica che per effettivo bisogno di andare in giro in pattuglia.

Neve, sassi enormi, il sole che picchia all’impazzata... lanterna 6, poi 7 poi 8... c’è ancora una 9 che sarebbe impossibile da trovare, e già mi vedo portato al traguardo da un elicottero chiuso dentro un sacco di plastica (scena provided by Davide Volpi) se non fosse che sulla scena in lontananza compaiono i salvatori della patria, sotto forma di un gruppo di gitanti (con bambini). Un solo pensiero: quelli lì non verranno mica su senza un riferimento! Ed ecco che infatti sulla carta, tra il sudore e la fatica ed il riverbero della neve, compare una microtraccia che fa da ovvio riferimento per il nono punto (per arrivare al quale occorre superare un anfratto roccioso angustissimo subito ribattezzato “Termopili”). Nel frattempo ci accorgiamo che il gruppetto ha perso un vagoncino, ovvero quell’Hakan Svensson che fa bella figura in Svezia in Elite ma che su quella tratta deve aver rimpianto le paludi della Tiomila e della Jukola. Infatti ad un certo momento ha piegato a destra e si è buttato in discesa... vabbé, fatti suoi, ha le gambe abbastanza buone per risalire senza il nostro aiuto (fosse stata almeno Josi...). Dopo la 9, l’uscita dal ghiaione è fettucciata (e meno male!) e si può ricominciare a fare del buon sano orienteering classico su un terreno nel quale non si rischia l’incolumità...

I punti si susseguono uno dietro l’altro, con una caviglia che sta attaccata al piede forse solo per un filo di pelle; i dislivelli che si fanno più abbordabili e con l’ora e mezza di gara che si avvicina avrei proprio bisogno di un ristoro... ma i due punti d’acqua sono ben lontani dalle nostre percorrenze (e questa è una piccola critica che faccio agli organizzatori...).

Le ultime salite, ma sono brevi rampe su sentiero o con il punto a vista, le faccio per andare alla 16 ed alla 18. E la 18 mi riserva proprio la sorpresa di giornata in quanto è la prima lanterna nella quale il vecchio adagio di Rudi Mair “prima vedere oggetto, poi vedere lanterna” non si avvera... se penso che i posatori hanno messo i codici numerici delle lanterne sempre rivolti verso l’oggetto, cosicché non li si è mai potuti vedere da qualche metro di distanza...!!! (e questa è una non-critica che non-faccio al tracciatore ed all’organizzazione).

Dopo l’ultima salita alla 18, dove comincio a prendermi cura peraltro di un gruppetto di W60 che necessitano di conferme orientistiche, capisco che sete o non sete, disidratazione o no, caviglia o no, la gara è praticamente conclusa anche se mancano ancora 8 lanterne. Ma saranno tutte nella zona di fondovalle, con una serie di passaggi in curva di livello sopra ad un torrente che porta proprio in zona arrivo.

Il mio tempo finale, 2 ore e 12 “minuti alti” non fa paura a nessuno... sicuramente non al vincitore di giornata, Michael Stockmayer (che ha corso qualche mondiale in più di me). Si stupisce invece l’amico speaker Wolfgang Poetsch che subito dopo il traguardo mi chiede come mai questo ritardo dal suo connazionale...
“Sai Wolfgang, sono infortunato e praticamente sto correndo su una gamba sola”.
Sottotitolo (non detto al microfono): “Sai Wolfgang, sono infortunato ma Stockmayer mi avrebbe dato un’ora anche se fossi stato sano!!!”.
Poi Wolfgang mi concede l microfono per un altro siparietto: “Sono solito chiamare Rudi Mair con il sopranome di no limits... ed ogni volta qualcuno mi viene a chiedere il perchè. La risposta ce l’avete, ed è nella gara di oggi!”.

Atty chioserà alla fine (dopo essere caduto praticamente in un crepaccio ed averci quasi lasciato un gomito) “Non sono d’accordo con la scelta del tracciatore dalla lanterna 6 alla 10”. Insomma, quelle tratte sul ghiaione non sono piaciute proprio a tutti. Ma il bello è che domani si replica con una middle che credo farà storia... la sentenza degli organizzatori è “La gara è middle ma il tempo di percorrenza dei vincitori sarà da gara long”. Insomma, si entra ufficialmente del Rock Labyrinth del Karersee. Mai come domani, forse, non poter correre sarà solo di aiuto...

Monday, June 14, 2010

La O-Marathon. Una “avventura lunga un giorno”, come l’aveva descritta Luigi Girardi in occasione di una intervista rilasciata ante-prima edizione. E’ una definizione bellissima e, secondo me, perfettamente centrata.

La O-Marathon è una gara per quelli forti, per quelli tosti, per quelli che dopo 3 ore serrate di battaglia hanno ancora fiato e testa e concentrazione per spingere a fondo. Ed è una avventura per quelli come me (e per tutta la gamma intermedia, si intende), impiegati, panzottelli, drogati o malati di orienteering. Quelli che non hanno paura di dire che sono arrivati con due ore e 45 minuti di ritardo da Tavernaro (come è successo a me alla prima edizione), o al termine delle premiazioni (come è successo a me alla seconda edizione). Quelli che sanno di non avere nelle gambe più di 5 ore di sforzi (seppur blandi ma continuati), quelli che sanno che su 40\45 lanterne del percorso ne canneranno di brutto almeno il 10% (e se è l’ultimo 10% vuol dire cominciare a sbarellare di brutto dopo 4 ore di gara...).

Che sono anche quelli che non hanno paura di uno sport nel quale (frase che ho coniato sabato pomeriggio) “ogni secondo che passa ed ogni metro che si percorre non ti avvicinano necessariamente alla fine delle sofferenze” (copyright by Stegal 3:16... e non azzardatevi a copiare!). La O-Marathon è tutta qui: non bisogna mollare e non bisogna mai pensare che si può mollare. Non sono mai riuscito a convincere alcuni amici, anche forti e anche molto forti, che la O-Marathon si può (o si deve) fare a ritmo meno sostenuto: c’è chi non riesce davvero a “volare” ogni gara come se stesse facendo una sprint; a questo punto, o sei Anders Nordberg in uno dei suoi ineffabili travestimenti da campione del mondo, o rischi di finire la benzina a metà gara e di non divertirti. La O-Marathon è oltre la soglia della fatica per chi si allena una volta ogni 15 giorni se va bene... è oltre il limite del conosciuto, del gestibile, della sete che ti fa impazzire e della crisi di fame che ti fa avere le allucinazioni. Ma per una volta anche gli impiegati panzottelli hanno la possibilità di tornare a casa orgogliosi per aver fatto qualcosa di super... (e di andare in ufficio il giorno dopo claudicanti come reduci dalla ritirata di Russia)

Tutto questo grazie ad una troupe di amici che organizzano tutti gli anni la “Blodslitet italiana”, la ultra-long dell’anno, senza sconti orientistici per nessuno: non è una gara su sentieri! Si gareggia su alcune delle carte più tecniche della penisola e bisogna cavarsi d’impaccio ogni volta, non per mezz’ora, non per 45 minuti o un’ora o un’ora e mezzo. Quelli come me mettono in conto le 5 ore, e sono 5 ore da sudarsi fino in fondo.

Ovviamente era l’appuntamento che avevo segnato in calendario fin da inizio anno. E avevo provveduto ad iscrivermi subito, il primo giorno nel quale era stato dato l’annuncio della gara. Guadagnandomi il pettorale #1 della gara, quello altrimenti riservato al vincitore della gara dell’anno prima (assente nel 2010) o al leader dopo la prova sprint del sabato (assente nel 2010). L’infortunio di venerdì sera, ovviamente, aveva interrotto tutto questo flusso di pensieri... il ricordo della terribile farfalla di Passo Coe 2008, con il centro della farfalla impossibile da trovare anche per i più sgamati Elite, anche dopo due o tre passaggi; ... il ricordo dell’ultimo ristoro a Passo Coe 2008, con un ritiro annunciato a papà Baccega e poi rientrato alla visione di Rusky che saliva lungo la strada ad un paio di minuti di distacco. E poi l’ultima farfalla del 2009, con una lanterna trovata per panico, per disperazione, per fede e speranza... Tutto questo era svanito come polvere nella pioggia a causa di una maledetta brutta distorsione rimediata solo qualche ora prima. Se avessi potuto riavvolgere il nastro della vita, avrei piazzato tra me e Mezzovico una coda micidiale in dogana a Brogeda ed una inversione ad U che mi avrebbe riportato a casa, forse infelice ma ancora sano. E invece mi sono trovato a Folgaria zoppicante, con una caviglia grossa come un pompelmo, il morale sotto i tacchi e la previsione di una mattinata ad attendere i compagni di squadra del GOK... sapendo che stavano affrontando quelle fatiche che anche io volevo condividere con loro, quei momenti di scoramento nei quali SAI che il traguardo è ancora lontano 3 ore, che devi ancora trovare un numero di lanterne che basterebbero per una intera normale gara long anche se ormai sei sfiinto e di lanterne ne hai già trovate 30.

Svanito tutto.

Domenica mattina la sveglia ha suonato (il gong di Atty) alle 6.45. Una formalità mettersi la divisa con la quale avevo fatto la O-Marathon del 2009, toglierla, punzonare il pettorale sulla divisa Aget e rivestirsi in nero e turchese. A colazione, colgo gli sguardi preoccupati dei miei compagni di squadra: sono preoccupati perchè vedono che non sto bene, che sono triste, ma anche perchè sanno che sono un po’ pazzo e possono aspettarsi di tutto; io faccio finta di niente anche se cammino a fatica (l’ascensore del Muretto ha fatto gli straordinari anche per un piano solo), ma mi rimpinzo come se stessi andando veramente a fare la O-Marathon. Mi chiedono cosa ho intenzione di fare... la caviglia è grossagrossa e si vede ad occhio nudo! Io rispondo che so benissimo di non avere una sola possibilità di finire la gara, e che quindi ho solo intenzione di presentarmi in partenza al Rifugio Valbrona...

Alle 8.30 il GOK al completo è in zona partenza. Dove stazionano già alcuni membri dell’organizzazione che il giorno prima mi avevano visto zoppicare lungo tutto il percorso del trail-O... “Dicci un po’... che cosa avresti intenzione di fare tu?”. La domanda è lecita: non stiamo parlando di una gara in pista. Nella quale si può crollare come Gabi Andersen-Schuess alla maratona di Los Angeles 1984 e rimanere comunque sotto controllo... Qui si parla di una prova nella quale 100 metri dopo la partenza i concorrenti possono essere ovunque. Non è il caso di avere in giro per i monti uno zoppo (che parte già zoppo!) e che potrebbe trovarsi in grossi guai da un momento all’altro. La mia risposta è semplice: “Voglio schierarmi in partenza, poi arrivare alla lanterna svedese... magari fare almeno un punto”.

Un punto. A Passo Coe! Potrebbe essere già una bella sfida... Arrivano anche Carlo Cristellon e Luigi Girardi. Colgo il loro dispiacere (sanno quanto io tenga a questa avventura) e colgo anche la loro preoccupazione; Luigi Girardi si raccomanda di fare attenzione ai passi che muoverò nel bosco, perchè il fondo è quanto mai insidioso con sassi e buchette... ma me ne ero già accorto in un impacciato tentativo di qualche minuto prima, quando mi ero appartato per motivi fisiologici ed avevo già fatto fatica a stare in piedi. Non ho una possibilità di finire la O-Marathon, perchè diamine dovrei solo pensare di cominciarla?

Non lo so. Ma arriva l’orario della partenza ed io, come tutti quanto gli altri folli che si fanno coraggio e si salutano e si abbracciano come in partenza per l’ignoto, sono schierato al via. Per fortuna il pettorale 1 mi garantisce un posto all’estrema sinistra, così sono sicuro di non essere tra i piedi di nessuno... Via! Muovo i primi passi incerti sul terreno e la caviglia continua a lanciarmi lo stesso segnale di “non pervenuto”: non è in grado di reggermi, di mostrare una qualunque parvenza di stabilità, e mi fa un gran male. Raggiungo la lanterna svedese (a 10 metri) e sono stato già superato da quasi tutti, raggiungo il sentiero (altri 10 metri) e sono in fondo alla fila. Gli ultimi a superarmi sono Adele e Stefano, gli altri si stanno già scapicollando lungo la discesa... colgo un attimo la tuta di Bibi e la maglia nera di Maria Grazia già avanti sul loro percorso Elite. Anche loro stanno andando verso l’ignoto ed avranno da faticare parecchio; non serviva che io appioppassi loro anche il fardello di preoccupazioni su cosa avevo intenzione di fare (ma so che penseranno a me durante la gara).

Perchè la mia decisione l’ho presa in 30 secondi. Tra le 8:59:30 e le 9:00:00 (se il via! è stato dato puntuale). Perchè per la prima volta forse in vita mia, in 30 secondi ho letto tutta quanta la carta di gara. E la carta di Passo Coe non mi è mai sembrata così parlante come in quei pochi secondi: punto 1... via per i sentieri e poi su fino alle buche... punto 2... sentiero e poi scollinamento e attacco al punto... punto 3... via lungo i recinti fino al laghetto... punto 4.. .punto 5... Non so fin dove potrò trascinarmi ma so che non dovrò affrontare traversate epiche. Forse qualche punto riuscirò persino a farlo. Intanto però devo smettere di guardare la carta: devo assolutamente tenere d’occhio il punto esatto nel quale appoggio i piedi! La mia avanzata sembra quella di Ridolini... appoggio il piede sinistro per un microsecondo e subito recupero con un nuovo passo di destro. In pratica vado avanti su una gamba sola :-) Ho memorizzato il sentiero: al tornante devo prendere una nuova direzione e buttarmi nelle vallette. E’ il primo momento nel quale lascio un fondo irregolare ma quantomeno visibile, e vedo che prestando la massima attenzione riesco a stare in piedi seppur a prezzo di notevoli dolori. L’attraversamento delle prime curve di livello mi porta a guardare verso l’alto, dove tra poco anche io dovrei arrampicarmi: scorgo la tuta di Rusky ed istintivamente penso al fatto che anche io dovrei essere lì con lui per una nuova avventura... ma lui ed io abbiamo compiti diversi in questa O-Marathon.

Salgo verso la 1. Cerco di leggere la carta ma in zona punto vado un po’ in crisi. Passo Coe è Passo Coe! Non si scherza e non si va avanti alla carlona. Purtroppo il mio infortunio mi impedisce di muovermi agevolmente in zona punto, e se cominciano i problemi devo scegliere tra “ricollocarmi” attaccando il punto da una zona certa (ma sarei costretto a spostarmi) e provare a muovermi in zona sperando di essere “abbastanza vicino al punto”. Dieci minuti. Quindici minuti. Venti minuti. Quanti ne servono per trovare un maledettissimo punto? Provo a spostarmi di poco, poi affronto la fatica di un ricollocamento (perdendo quota e riguadagnandola a fatica)... ancora il punto non si vede. Vuoi vedere che, nonostante tutto, non riuscirò a trovare nemmeno un maledettissimo punto? Un rumore dal bosco... saranno Carlo e Luigi che seguono la truppa per recuperare i punti? No, è un master (sconosciutissimo) che scende verso di me? “Sai dove siamo?”. “Dovremmo essere in zona 31...” dico. “Ok, l’ho vista, è lassopra. Ti ci porto e mi dici dove siamo...”.

Urca! Troppo bello troppa grazia. Il fatto è che questo tizio si muove troppo velocemente per me. Non arriviamo alla 31 ma nel frattempo arriva un altro master... i due si mettono d’accordo tra loro e giustamente mi abbandonano. Resto lì con la mia 31, sono in zona ma non trovo il punto. Finché al 23° minuto, girando lo guardo attorno, la lanterna compare come se niente fosse!!! Il mio primo pensiero è come sia possibile averci girato attorno così tanti senza vederla... comunque un punto è andato. In un tempo impossibile ma è andato. Proviamo ad andare al punto 2, ora. Scendo al sentiero e lo percorro fino ad un punto di attacco... adesso devo scollinare in salita e dovrei trovare dietro la collina un avvallamento; la scalata la affronto “in ginocchio”, nel senso che anzichè appoggiare in salita il sinistro appoggio il ginocchio! Grugnisco di dolore ad ogni passo fatto così, le tenniste che si scambiano bordate al Roland Garros fanno meno casino di me... tanto sono da solo nel bosco; scollino e vedo la lanterna. E... errore: non sono da solo nel bosco! Trovo infatti Alice e Laura dell’Er-Team, che probabilmente si stavano aspettando un attacco dell’Orso Dino!!! Punzono e cerco di sparire nel più breve tempo possibile (compatibilmente...).

Punto 3. Via lungo il sentiero, strascicando i piedi, poi lungo il recinto a scavalcare colline... improvvisamente una figura lontana: “Ehi! Stephen... che succede” “Lascia stare, sto già sbagliando...”. Che cosa succede? Ha dimenticato la 2? Perchè torna indietro? “Stephen... ma che punto stai cercando?” “La 4!”.

“Stevie! Gira la carta!!!” La 4 è dietro le tue spalle, da quell’altra parte...”. Stephen si ferma, borbotta e riparte a gambe levate in direzione opposta. Terzo punto, poi il quarto. Ad ogni punto si fa un check della situazione. Il cervello dice “Ok... dolore tanto, caviglia fuori posto... facciamo un altro punto e vediamo che succede”. Sbaglio il quinto punto portandomi troppo alto nella zona dei sassi (qualche minuto perso) e poi mi inoltro nel “giardino botanico” di Passo Coe dove i punti sono più facili ed il terreno è più piatto. Alla farfalla, vedo ancora Stephen (che la sta finendo) ed Adele e Stefano che sono avanti di una ala rispetto a me... e si chiedono come ho fatto, intanto, ad arrivare fin lì... Finisco la farfalla (14° punto) ed è il momento di rifiatare e di prendere un po’ di gel e di “bomba”. E di avvisare qualcuno della mia posizione.

Eh già. Perchè in uno dei due marsupi di cui sono dotato c’è il mio cellulare, per ogni evenienza. Il primo sms che parte verso PLab che ci fa da assistant coach è lapidario: “Mi muovo verso la 15”. Spero che capisca che è la 15 del percorso Elite. Da lì in poi, ad ogni punto, avrò due appuntamenti: il primo con il check cervello-caviglia: la caviglia bestemmia e non vuole più saperne di andare avanti, il cervello dice “un altro punto ancora”; e poi con il cellulare con il quale segnalerò che vado alla 16... alla 17... alla 18... che sto affrontando la lunghissima discesa verso la 20.

Tutto questo, ovviamente, non si fa in tempo zero se si cammina e ci si tira anche dietro il piede. Infatti quando sbarco al cambio bricchetto sono passate ormai 3 ore di gara: “Truffa” ed i primi hanno già finito la loro prova, l’ambulanza non vede l’ora di andarsene da Passo Coe ed anche gli organizzatori si stanno un po’ stufando di aspettarmi (l’ultimo passaggio, quello di Stephen, risale a venti minuti prima). Trovo infatti al cambio bricchetto nell’ordine: PLab che è stato cooptato dall’organizzazione e gestisce l’arrivo dell’ultimo (io), una bottiglietta di acqua, un bicchere di the, Carbogel a volontà ma non ne ho bisogno. Soprattutto, però, è il primo momento nel quale devo veramente attaccare il cervello e capire cosa voglio fare e cosa posso fare nelle ore successive. E per farlo posso appoggiarmi al cervello di PLab, il quale ha più raziocinio di me che ho passato le ultime tre ore a grugnire e cercar lanterne...

Le opzioni sono due. Posso provare ad andare avanti, rischiando di finire veramente cotto lungo la cresta che sulla carta provinciale porta verso Serrada... un trasferimento che potenzialmente ha connotazioni orientistiche molto inferiori e che mi porterebbe anzi ad allontanarmi di brutto da qualunque aiuto esterno di cui potrei aver bisogno. E’ il momento della P.M., anzi del ritiro, ma non lo sto vivendo come tale (anche se un po’ di tristezza c’è, dai...). D’accordo con PLab, decido allora di affrontare una seconda parte di gara più agevole.

Il mio primo pensiero, voglio dirlo subito, è andato e va ancora adesso a coloro che (in qualunque categoria) hanno fatto tutto il percorso soffrendo sotto il solleone della salita ed affrontando poi la discesa sulle piste da sci: non voglio e non posso associarmi alla loro fatica perchè io ho fatto un pezzo di gara in meno. Spero che sarò perdonato. La O.Marathon è una gara nella quale non si deve mollare e non si deve mai pensare che si può mollare... ma ogni tanto è d’uopo riflettere ed attaccare il cervello anche nel rispetto degli organizzatori. Io mi sono fatto raccattare da PLab dopo 3 ore di gara e mi sono fatto lasciare in corrispondenza della piccola galleria lungo la strada verso Serrada. Ho saltato 6 lanterne ma volevo arrivare a Serrada leggendo la mappa...

E qui è successa una cosa strana. Quando sono sceso dall’auto e mi sono incamminato lungo il nastro d’asfalto (con quel pettorale #1 ed una andatura che avrà fatto venire mille domande a chi mi ha incrociato), improvvisamente ho colto il fatto che dal basso... dalla caviglia non arrivavano più segnali. Di nessun tipo. Un pezzo di carne insensibile. Come se dal ginocchio in giù fosse stato dichiarato sciopero selvaggio... Il piede bloccato in un gran taping continuava a procedere per inerzia, l’altro (il destro) a spingere nella mia O-Marathon-su-un-piede-solo. Mi sono detto “Se la caviglia è andata, magari potrei accennare ad un passo di corsa...”. Non l’avessi mai fatto!!! Sono partite persino le trombette sudafricane a fare un gran casino... meglio continuare al passo strascicato e non svegliare il can che dorme.

Affronto il primo punto (28) da un lato della strada, poi il 29 dall’altro addirittura in bussola (finendo giustamente lungo di una ventina di metri per cotanta superbia). Il punto 30 è semplicemente in fondo ad un lungo sentiero ed improvvisamente mi trovo immerso in un bosco bellissimo e pulitissimo... che purtroppo non affronterò nella farfalla più infame e più murettosa e più verde e più labirintica dai tempi di Paluzza!!! Di quella farfalla ricorderò i 15 minuti circa passati a cercare il punto 33 trovato per caso a 150 cm dalla mia sicard quando, per disperazione, mi sono detto “Vado al centro del cerchietto, e basta!” (questo me la dice lunga, a me medesimo, sul fatto che non contavo il “salto di lanterne” come una P.M.... avrei in effetti potuto mollare la 33 e puntare sulla 34 ma sarebbe stato come fare veramente una P.M.!). Ricorderò alcuni muretti scavalcati in puro stile Fosbury, ovvero: 1) guardo al di là dell’ostacolo per vedere se ci sono pericoli, 2) mi appoggio di schiena al muretto, 3) mi lascio cadere dall’altra parte a corpo morto... Per fortuna Michele Franco non mi ha visto!

Alla fine di ancora tanta sofferenza (non della caviglia che ormai aveva finito di sgolarsi, ma del mio fisico che anelava acqua e nutrimento... essendo passate ormai le 5 ore di fatica) sono arrivato al termine della farfalla; sentivo già la voce di Andrea Rinaldi al microfono per l’inizio delle premiazioni. Ho iniziato il trasferimento verso l’abitato di Paluzza sperando di arrivare alla chetichella... e non mi è riuscito proprio per niente! Ci hanno pensato le persone dello staff all’arrivo a segnalare a “the voice” il mio piombare sul traguardo.

Considerazioni finali.
Ad un giorno di distanza, posso dire che “mi fa male ogni cosa”. Ieri sera ho troncato quasi sul nascere il racconto per il blog perchè mi facevano male pure le dita che picchiettavano sulla tastiera. Oggi, se possibile, va un po’ peggio: il fronte “caviglie unite” ha trovato validi alleati dal nocciolino alla base del collo fino a tutti i muscoli della schiena e delle gambe.
Ma va bene così. Ho tempo un paio di settimane per rimettermi in sesto...
Personalmente considero la mia O-Marathon non conclusa, ma obiettivamente non pitevo fare di più senza mettermi nel pericolo e senza far preoccupare oltremodo gli amici e gli organizzatori-amici... Ho fatto tutto quello che potevo, anzi credo di essere andato molto oltre il limite che pensavo di avere. O, come ha detto Davide, “la mia soglia di sopportazione del dolore è quella di un caterpillar”.

Allora... stai a vedere che aveva ragione Corradini quando durante la sua partecipazione a SuperQuark parlava di lattato e di soglia del dolore !!!
:-)))

Ho un annuncio, per me e per l’O-universe. L’anno prossimo tornerò.
Più vecchio. Con ancora meno forze. Ma spero più sano di quest’anno. Sarà ancora O-Marathon, finché ne avrò le possibilità.

Sunday, June 13, 2010

Le situazioni evolvono spesso in direzioni imprevedibili.
Imprevedibili e talvolta negative.

Avrei tanto voluto scrivere un “Ancora 48 ore” che sarebbe cominciato con i titoli di coda del film precedente, con il ritorno a casa (o meglio, alla stazione di Vicenza) in macchina con la famiglia Guarato-Marcati... E poi avrei voluto raccontare un venerdì sera alla seconda tappa di Fra.G.Ori in Ticino. E infine il fine settimana atteso da inizio anno, quello della O-Marathon degli Altipiani, con il terzo attacco alla categoria Elite e, en passant, una nuova Coppa Italia di trail-O a Serrada di Folgaria.

Ahime... nulla di tutto ciò si è verificato. O quasi. Accade tutto venerdì sera attorno alle 19.35. Sono a Mezzovico, alla seconda tappa di Fra.G.Ori. E sto corricchiando nel deadlo di viuzze del paese sul bel tracciato di Anna Bisceglia. Non sono molto concentrato, forse a causa di una ennesima giornata di lavoro terrificante. Sto andando verso il settimo punto e la mia scelta prevede un passaggio in una zona... forse un complesso scolastico?... con un piccolo campo rettangolare asfaltato che mi indirizza verso un masso a bordo del torrente che scende dalla montagna. La discesa avviene lungo una piccola scalinata, ma visto che il punto si trova alla mia sinistra decido di abbandonare i gradini e continuare di sbieco sull’erba del prato... L’ultimo passo col piede destro atterra proprio sul bordo tra il gradino e l’erba.

Un attimo. Una pattinata. Sento che la caviglia destra sta per cedere e “richiamo” il piede sinistro per reggere il mio dolce peso. Ma il piede sinistro è già in zona erbosa. La punta della scarpa si impianta nell’erba e si blocca. La caviglia sinistra ha un elongazione innaturale e sento un crac sinistro... e poi un dolore fortissimo che sale lungo la gamba verso il ginocchio. E’ come se qualcuno stesse cercando di estirparmi muscoli e tendini strappandoli dall’alluce con una tenaglia. La punta del piede è sempre piantata nell’erba, il ginocchio si piega di brutto sotto il mio fondoschiena... io crollo lungo il prato erboso finché il mio peso crea abbastanza attrito sul terreno da vincere la forza di gravità.

Il primo pensiero, nel dolore lancinante, è che là sotto si sia spaccato tutto. Uso una mano per estrarre il ginocchio e mi accorgo per fortuna che il cartello “Dolore” si ferma appena qualche centimetro sotto il ginocchio. La caviglia però è saltata. Tacito in un istante la vocina che dice “Su, forza, puoi proseguire e finire la gara!”. So che devo raggiungere prima possibile il traguardo e chiedere aiuto. Per fortuna sto transitando proprio sopra all’arrivo: scendo con molta circospezione e dolore e vengo preso in custodia da Ester che arriva col ghiaccio... lo vorrebbe applicare sopra la calza ma io lo voglio sulla pelle perchè faccia più effetto e subito. “La caviglia è la tua” dice Ester, ma non mi interessa: voglio fermare il gonfiore prima che la caviglia si gonfi come un pallone. Cosa che in parte, ovviamente, avviene lo stesso. Ma il peggio che temevo sembra definitivamente passato. Ancora un po’ di pomata fredda, mille raccomandazioni... ritorno a Milano con fatica e con ancora più fatica mi metto a letto stentando a prendere sonno per il male. Intanto il GOK è stato avvisato: Stegal infortunato, O-Marathon saltata.

Sabato mattina all’alba il GOK prende a bordo uno Stegal dolorante e abbacchiato. Direzione Serrada di Folgaria. Alla Coppa Italia di trail-O sembra che io sia l’unico “paralimpico” al via... d’altronde la mia zoppia è evidente. La gara di Coppa Italia la ricorderò qui sul blog soprattutto per alcuni fattori di secondo piano:
- le lanterne che sembrano lavate col muriatico da tanto che sono sbiadite (alcune invisibili a vedersi nel bosco verde)
- il dolore che mi impedisce di muovermi agevolmente e, soprattutto, mi distrae continuamente (scambierò il simbolo di “radici” con quello di “alberi” e mi accorgerò solo dopo gara che un certo simbolo non rappresentava una panchina ma una enorme croce di pietra a bordo strada...)

Il mio risultato è il peggiore di questa Coppa Italia, in una classifica molto corta, ma l’amarezza è compensata dalla doppietta del GOK “Rusky + PLab” dopo che la prima classifica li aveva messi ai primi due posti in ordine contrario. Le due ore di, seppur agitato, sonno pomeridiano sono le prime della settimana che mi godo veramente, così come la autentica catalessi post-cena... Perchè adesso arriva domenica, la domenica della O.-Marathon, ed è il momento di pensare a qualcosa di brutto e di nefasto che io ed il pompelmo (ovvero la mia caviglia) possiamo combinare...

Tuesday, June 08, 2010

48 ore.
Non è forse il titolo di quel film con Nick Nolte ed Eddy Murphy? Quel film nel quale in 48 ore si verificano colpi di scena a ripetizione, nel quale il poliziotto ed il galeotto devono allearsi, fingersi amici, poi fare amicizia davvero, poi sconfiggere i nemici di ciascuno che nel frattempo sono diventati comuni nemici... il tutto in sole 48 ore.

Io forse posso arrivare a descriverne 52, di ore. Mi prendo un bonus, un tempo supplementare, rispetto ad Eddy Murphy che in quel film aveva avuto persino il tempo di cuccare; e se rispetto al personaggio di Nick Nolte non ho ucciso nessuno (magari qualcuno si, però di noia...) posso ugualmente essere orgoglioso di alcune trovate degne di una buona sceneggiatura, non ultima delle quali l’inizio dell’intervista improvvisata ad un certo Giorgio Di Centa...

Le mie 48 ore (e mi rendo conto adesso che il prossimo episodio potrebbe intitolarsi “Ancora 48 ore”) iniziano con una fuga dal lavoro; una fuga che può riuscire solo se c’è un buon motivo per eclissarsi: una gara di orienteering. La deviazione che faccio sulla strada lavoro-casa è un po’ marcata... si tratta di spostarsi a Lugano venerdì sera, anzi per la precisione a Porza-Comano, per una nuova edizione di “Fra.G.Ori”. Prima tappa. Noi le chiameremmo “promozionali”. Di venerdì sera. E ci sono 200 atleti circa! E non sono per niente scarsi... 4 percorsi, divisi per fasce di età unisex, ed il solito dislivello ticinese lanciato a piene mani tra un punto e l’altro.

Bibi parte 12 minuti prima di me. La temperatura segna 31 gradi anche se sono le ore 19... vedo Bibi prendere una direzione a sinistra e sparire all’orizzonte dietro le prime case. Tocca a me... Luciano Hochstrasser mi posiziona davanti alla carta un minuto prima del via “La posso guardare?” “Certo, tanto la prima metà gara è sull’altra parte del foglio!”. Mi accorgo solo adesso che non vi è traccia del triangolo di partenza... e non è la mia classica “idiosincrasia da triangolino magenta”.

Parto, e subito mi butto a destra. Scelta unica, la prima lanterna è in fondo alla strada, in cima ad un viottolo a gradini. Arrivo al punto e con me arriva Dodo (compagno di squadra AGET) che era partito tanti minuti prima di me... comincio a pensare a cosa stia succedendo e mi convinco che, con partenza ed arrivo a pochi metri tra loro, i percorsi ed i concorrenti siano alternati: il primo comincia dal giro di Porza e finisce con quello di Comano, il secondo fa il viceversa... facile, no? Come 2+2. Uguale 5. Infatti sia Bibi che Dodo avevano sbagliato di brutto (ma di brutto brutto brutto) il primo punto. Dodo, che corre come un cavallo, mi supera sulla prima salita ma riesco poi a staccarlo nel primo dedalo di viuzze. Mi sembra di correre bene ma dopo pochi minuti mi accorgo che il caldo e l’umidità mi stanno disintegrando. Finisco per mancare un sentierino nella tratta di trasferimento tra Comano e Porza e così per punizione mi tocca traversare un ruvido e lungo verde 2 (“Ma pure a Fra.G.Ori devo spatassarmi di rovi?” mi chiedo...), al termine del quale vengo superato da Stefano Brambilla che invece il sentierino l’aveva trovato. Per recuperare, attacco il muro di Porza per la direttissima, cercando un varco tra alcuni gialli che in realtà non troverò (preferisco non superare un basso recinto per evitare guai, miei ma anche all’organizzazione, con i contadini elvetici) e tra minuti persi, dislivello inutile, fatica a gogo e gambe mosce concludo la prova in una posizione rivedibile e migliorabile, pochi minuti davanti a Roberta che invece fa la sua bella figura sul mio stesso percorso (partenza a parte...).

Il rientro a casa a Milano è tranquillo, ma la notizia che mi coglie alle 23 circa mi coglie impreparato: la GOK-car che doveva portarmi a Paluzza è “svampata”! Sono rimasto senza un calesse e senza compagni di viaggio, e devo essere a Timau (praticamente in cima al mondo) prima delle 14... Per fortuna la solidarietà orientistica si mette in moto, e nonostante l’ora tarda riesco a concordare un passaggio da Tazia Lorenzet... ma per approfittarne devo arrivare in treno a Conegliano! Dove sta Conegliano? Le mie nozioni di geografia del nord-est sono limitate a poche carte orientistiche, ma internet è accessibile ed una rapida occhiata mi consente di capire che posso arrivare a Conegliano agevolmente a patto di svegliarmi all’alba per prendere il primo treno per Venezia.

Ciuciuff ciuciuff... Ciuciuff ciuciuff...
L’arrivo a Conegliano viene allietato dalla lieta novella che i miei vicini di casa stanno allertando i pompieri per una fuga di gas che verrebbe dal mio appartamento... (la vituperata casetta si sta ribellando?); alcuni membri del GOK rimasti a Mediolanum si attivano per scongiurare il pericolo (nulla di tutto ciò si stava effettivamente verificando...) e così Tazia ed io possiamo arrivare a Timau in tempo per la prima tenzone, il Campionato regionale sprint.
Il luogo è decisamente incantevole, incastrato tra le montagne del confine tri-patrio. La carta mi ricorda a tratti quella di Regazzini (questa è per gli intenditori della Val di Sole...) o del Velon (ripeto... per gli intenditori della Val di Sole). In partenza subito una zona di 100 metri per 100 nella quale stazionano: una dozzina di lanterne, una dozzina di cocuzzoli, una dozzina di avvallamenti, una dozzina di dozzine di grossi massi, una dozzina di cadute rovinose a terra causa sottobosco insidioso e avviluppante... L’ingresso in carta prevede una mia tattica personale che è tutta un programma (ora Jaroslav Kacmarcik si spara un colpo in testa...): poiché in quella zona grande come un francobollo dovrei trovare le mie prime 6 lanterne, decido di entrare deciso e puntare al primo prisma bianco-arancio che trovo... probabilmente sarà uno dei miei! Se ho fortuna (dicesi così quella cosa grossa che porto tra il fondo schiena ed i tricipiti femorali) è la 1, sennò faccio il punto... non ho fortuna (o meglio, ne ho troppa ma mi appesantisce e basta) ma la tattica funziona ugualmente. La successiva discesa abbastanza lineare verso il traguardo (altre 10 lanterne) mi vedrà affrontare erba alta ed un discreto numero di ortiche... ringraziate quindi Stegal che vi apre la strada!!!... ed un arrivo tranquillo dopo 24 minuti. Prestazione di nessuna rilevanza, Marco Seppi chiuderà in 10’58” ma ormai sono mesi o anni che non ci faccio più caso: è ora di cominciare la terza parte dell’avventura, lo speaker (e non sono ancora passate 24 ore!).

Quando finisce anche la parte da “fiato alle trombe, Turchetti!” vengo accudito come un figliolo da Paolo Di Bert, i cui occhi, il cui sorriso e la cui energia ineguagliabile faranno da colonna sonora di tutto il film. Si rientra alla base per la cerimonia di inaugurazione del nuovo Centro Federale alla presenza della Principessa delle nevi, l’unica e sola ed ineguagliabile ed inimitabile e bellissima (e bravissima!!! Caspita che parlantina sciolta e che carattere...) Manuela Di Centa. Nostra Regina delle Nevi si presenta in abito elegante e finisce per essere intervistata da uno Stegal inguardabile (camicia jeans, scarp de tennis, mano in tasca... elasticità paragonabile a quella di un lampione stradale... ascelle pezzate e per finire direi anche occhi pallati, mani due spugne, manie di persecuzione e miraggi assortiti!!!). La foto made by Roberto Trentin rende l’idea...





Dopocena a vino e birra, ed è già domenica quando si va a letto. Paolo Di Bert è inarrestabile come un tornado forza 5 e fosse per lui si tirerebbe l’alba in compagnia, ma lo speaker sa che ci sono ancora due tasselli da mandare a posto prima di riprendere the long way home... Il gentilissimo proprietario dell’Albergo Cristofoli mi aspetta ancora alzato per assicurarsi che tutto sia a posto, ma le campane della chiesa di Treppo alle 6 del mattino mandano all’aria il sogno che stavo facendo (centrava forse Manuela Di Centa?) riconsegnandomi alle scarpe da orienteering in pieno stato di catalessi. Sono poi le 8 del mattino quando trovo un passaggio dall’hotel verso la zona gara e... indovina chi è? Paolo Di Bert! Ma gli avete fatto l’esame antidoping??? Ma come ci riesce??? E’ ovunque!... insomma, alle 8 del mattino (8.15) Paolo mi allunga la carta di gara consegnandomi alla partenza dove Anka Kuzmin e The Fox stanno preparando il tutto.

Quarto tassello da mandare a posto, e la carta di gara mi dice che non sarà mica così facile... Ossignùr, il primo punto sì che sembra facile: sentiero, curva, superare il maso, stare in costa sopra alla curva di livello... arrivo in zona punto (109) e per prima cosa mi trovo a fare a botte con un’erba alta che arriva fino al ciuffo ribelle di Dario Stefani. Di lanterne nemmeno l’ombra, mi faccio un po’ più avanti ma la descrizione punto “limite di vegetazione” sembra ovvia... la mia prima considerazione è: “ok, nessun problema, staranno posando i punti”.

P.M. !
Punzonatura mancante. Il punto c’era ma non l’ho visto. Vabbé, nessun problema, non sono qui per fare un risultato. Tranquillo sul punto 2 e qualche problema sul 3 dove non capisco bene le curve di livello. All’attraversamento della statale entro nel primo labirinto piatto fatto tutto di avvallamenti, sassi, muretti e verdini che porta al greto del torrente But. Manco la 4 ma trovo la 5... torno sulla 4, ritorno sulla 5... misteri della sicard: la 4 non risulterà punzonata (forse la colpa è del fatto che non faccio clear e check alla partenza?).

Ri-P.M.!
Vabbé, nessun problema, non sono qui per ecc.ecc.
La 6 e la 7 vanno via lisce come l’olio e per qualche minuto ho come l’impressione che la mia bassa velocità di crociera mi consenta di andare a sbattere contro le lanterne. Ed è una impressione che da lì in avanti mi accompagnerà fino al traguardo; anche perchè è vero che ci sono ancora un paio di lanterne sulla costa pendente ma poi il percorso è in discesa o in piano. Il tempo di rischiare l’osso del collo nell’attraversamento del But, che affronto nell’unico punto che l’organizzazione aveva previsto come pericoloso, ed è tempo di perdersi di nuovo in un altro dedalo di muretti e verdini e verdoni prima delle ultime lanterne in paese: dalla 13 alla 17 tutto bene, ma per la 18 non ne posso più di vegetazione invadente e mi porto fuori strada... poiché so che sono in giro da solo riesco a svegliarmi e urlarmi da solo che non devo mollare la presa adesso che sono all’ultima lanterna difficile. Sarà l’urlaccio, le parolacce, la faccia cattiva ma quella str...za di lanterna decide di farsi vedere a 5 metri da me!!! Il finale è decisamente filante, anche se sono un po’ sulle ginocchia, ed è solo quando arrivo alla 24esima lanterna e sto correndo gli ultimi 150 metri di gara che mi accorgo dello scenografico blu carpet messo a disposizione degli atleti dal comune che ci ospita.

Il che mi consentirà la prima boutade... “Se fossimo alla notte degli oscar il tappeto sarebbe stato rosso, ma that’s orienteering... noi siamo persone più nobili rispetto agli attori di Hollywood e quindi il tappeto è blu!” (le battute non me le scrivono quelli di Zelig!).
Seguiranno 3 ore abbondanti di cronaca con l’aiuto inestimabile di Alessia Ciriani, colei che fin d’ora incorono “speaker Fiso del 21° secolo”, sempre col sorriso, sempre con grande simpatia e spontaneità, competente e coinvolgente nel dedicare spazio sia alla cronaca della gara che al contorno di pubblico.

Ma devo ammettere che ad un certo momento ho “staccato”... la gara si stava concludendo. Carlo Rigoni aveva steso la concorrenza e si era poi presentato al microfono con quel bellissimo sorriso da eterno ragazzino che sa di averla combinata bella anche questa volta (sempre grazie, Carlo, per la tua disponibilità e per non avermi ancora menato!). Christine Kirchlechner aveva mandato subito i titoli di coda dopo aver avuto persino il tempo di preoccuparsi al microfono per il suo Ingemar, il quale invece era in zona e mi sentiva e stava vincendo la sua gara e si chiedeva cosa mai stesse cianciando quel deficiente di uno speaker! E poi le volate dei ragazzi della Masi, Emilio Tamarri e Luca Bignami, di Fabiano Bettega e Simone Mocellini, di Liliana Papandrea che poi si preoccuperà di consolare la dolcissima Maria Vittoria Bulferi che nel sottobosco lascia una caviglia e le speranze di successo (ma sono sicuro al 1000x1000 che si rifarà presto).

Ma, come dicevo, poi ho staccato... avevo ancora due cartucce da sparare. Dovevo stare calmo. Una cosa per volta... una parola per volta. Per introdurre Giorgio Di Centa “la grandezza di uno sportivo ha una unità di misura: il fatto che ci sia una voce a lui dedicata su Wikipedia!” (e già qui ho visto la faccia di Di Centa, che si stava avvicinando al palco, assumere la forma di chi sta a pensare “machestaaddìquesto?!?”).
E poi quello per cui mi stavo preparando da alcuni mesi. Dovevo solo stare calmo.
“Giorgio, se dico 26 febbraio 2010... dove eri in quel momento?”
“Eh... stavo a Torino... e precisamente...”“Grazie Giorgio! Mi fa davvero piacere sapere che le persone si ricordano dove stavano nel momento in cui tagliavo il traguardo al terzo posto alla gara di Giussano!”


Nella mia testa è seguito un centesimo di secondo in cui il mondo si è fermato, poi ho sentito la risata di Giorgio, quella delle centinaia di persone che avevo davanti... ed ho capito che nessuno al mondo, nessun giornalista sportivo o impiegato panzottello consegnato alla causa dell’ori-speakeraggio, aveva mai detto una cosa del genere ad un bi-campione olimpico.

Io si.